[trad. ingl. di G. McDowell, Einaudi, Torino 2017 («Lezioni Primo Levi», 8)]
Filosofa di formazione, l’autrice dell’ottava «Lezione Primo Levi» si muove tanto agilmente tra concetti ed ermeneutica quanto tra ricerche d’archivio e analisi testuale. La sua sensibilità storica si palesa già con la precisazione sul senso da attribuire al secondo membro della diade che dà titolo al libro: il sintagma “i tedeschi” non fa riferimento a un’entità astratta, forgiata dagli stereotipi sui caratteri dei popoli, ma è piuttosto un termine di confronto da declinare nella cronologia della storia d’Europa e in quella della biografia di Primo Levi. «Si potrà dire “i tedeschi” solo se si avrà la pazienza di collocare di volta in volta questo soggetto nel suo punto di appartenenza rispetto alla storia politica europea, a quella italiana, alla storia personale di Levi e alla sua vicenda di scrittore» (p. 57). Contro «chi crede all’esistenza di un Levi atemporale, monolitico, sempre uguale a se stesso» (p. 11) Mengoni ribadisce l’importanza di storicizzarne il percorso intellettuale e artistico: un’operazione decisiva per comprendere, per esempio, i motivi che hanno spinto Levi a elaborare attraverso la finzione letteraria un episodio biografico nodale, quello dell’incontro epistolare nel 1967 con Ferdinand Meyer, uno dei tecnici civili impiegati nel laboratorio della fabbrica di Monowitz in cui lo scrittore lavorò negli ultimi mesi di prigionia. Mengoni ricostruisce l’episodio grazie alle veline conservate nell’archivio di Hety Schmitt-Maaß, una delle principali corrispondenti di Levi dalla Germania, avendo cura di tener separata la ricostruzione dello scambio epistolare dall’analisi del testo in cui poco meno di dieci anni dopo lo scrittore dà forma letteraria all’episodio: il racconto Vanadio, penultimo capitolo del Sistema periodico. Dopo aver ricostruito gli eventi sulla base dei documenti disponibili, evidenziandone lo scarto rispetto alla narrazione letteraria, e dopo aver analizzato le caratteristiche testuali di Vanadio, Mengoni ragiona sui motivi che possono aver prodotto la divaricazione tra biografia e racconto autobiografico: da una parte, un differente contesto storico (negli anni Settanta Levi si mostra a più riprese preoccupato di un possibile ritorno dei fascismi in Europa), dall’altra, un maggior grado di consapevolezza da parte di Levi dei propri mezzi di scrittore. Vanadio ne emerge come una tappa importante del processo di rielaborazione sia intellettuale sia letteraria dell’esperienza concentrazionaria: non solo vi si può individuare la «genesi anche narrativa – oltre che analitica – del concetto di “zona grigia”» (p. 139), poi sviluppato nel secondo capitolo dei Sommersi e i salvati, ma anche il momento in cui Levi esplora «per la prima volta la possibilità di raccontare singoli episodi, legati ad Auschwitz, svincolandosi almeno in parte dal proprio ruolo di testimone e puntando piuttosto alla creazione di personaggi finzionali e funzionali nel presente» (p. 153), come farà in Lilìt e altri racconti. Quello con Meyer è sicuramente l’incontro più importante messo a fuoco nel libro, ma non meno interessanti sono quelli con altri intellettuali di lingua tedesca: con gli scrittori Wolfgang Beutin e Albrecht Goes (la prima lettera del carteggio di Levi con entrambi è pubblicata in appendice, insieme alle prime lettere a Ferdinand Meyer e Hety Schmitt-Maaß); con Heinz Riedt, il primo traduttore di Se questo è un uomo; con lo storico austriaco, ex deportato ad Auschwitz, Hermann Langbein; con l’intellettuale austriaco-belga Hans Meyer/Jean Améry, interlocutore e protagonista del capitolo dei Sommersi e i salvati «Intellettuale ad Auschwitz»; ma anche con scrittori tedeschi letti, amati e tradotti da Levi, come Heine: sulla traduzione di una sua lirica si chiude il saggio di Mengoni, che individua nelle scelte traduttive dello scrittore gli indizi del suo rapporto complesso, ambivalente ma intellettualmente e letterariamente proficuo con il mondo germanico.
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